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…Seltz al limone… GIGE TORNA A CASA di Giuseppe Franchina

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Vado controcorrente, questo è il mio destino, rispetto alla generalità di opinioni che ritengono che Alfonso Sciacca sia soltanto scuola, banchi e libri antichi…. per dire al contrario che incarna il rappresentante unico di un metodo culturale a cui va riconosciuto, a parte le mille contraddizioni dell’uomo politico, il primato di uno status, di un ruolo, di un indirizzo che in poche parole può essere battezzato con l’immagine retorica dell’edicola senza confini. Qualcuno sostiene che nel suo ultimo libro abbracci l’idea della morte. Egli invece ha profonda paura, la tiene a bada nei ricordi, l’accarezza e mai l‘affronta perché dura, terribile, spersonalizzante come la mano ruvida, bruciata dalla candeggina e dalla pulizia, di una madre che accarezza il volto del proprio figlio o come il pane duro, specie se dal cozzo, quando viene mangiato da una bocca infantile piena di ferite. L’autore rivede se stesso in una perenne abdicazione pedagogica che consente a Sciacca medesimo di scrivere la propria biografia a partire dal contatto con i propri allievi e con i propri alunni.

Buttafuoco ne rende l’omaggio più triste e veritiero, ma omette un aggettivo che non ha soltanto valore integrativo, ma sostanziale sicchè da favorire l’iniquità e la perfidia di un disconoscimento che contraddice la predicazione di un figlio che rovescia l’ordinamento divino della famiglia e gli interessi supremi di una spiritualità cristiana alla quale mette la maschera della eccessiva cultura laica. In buona sostanza, l’aggiunta, cambia l’interpretazione, la declinazione, la specialità. Il libro “Se il grano muore” è quindi, a mio avviso, “respiro” ma “respiro corto”. Sciacca si scaglia, in una vita vissuta a partire dalla fine, contro la dimensione totalizzante, paralizzante infine, dell’affetto incalzante (per questo corto) che ostenta fin dalle prime parole ma alle quali oppone, nell’ottica di emancipazione dalla totale parzialità, il broncodilatatore della storia per tentare di capire tramite il binocolo della memoria il senso di una vita, la sua, tra passato e presente.

Manca però l’irriverenza!!! lasciando emergere un dato: c’è un lavoro di scrittura oltre la scrittura. Una consapevolezza di sé e del mondo che affiora sullo sfondo, dal palco dell’inchiostro dove Ego e Narciso si alternano in una incidenza narrativa fatta da immagini, paesaggi, onomatopea, sapori, odori, volti e voti; ed ecco la attualità. Dal graffio si passa alla carezza in un segmento invasivo di categorie di pensiero che pongono una questione generale sui concetti e sul metodo del libro: l’uso del tempo. Un tempo diverso tra dentro e fuori, tra mente e cuore, fragile ma forte nella pressione unica della sofferenza. Alfonso sembra un Omero danzante di città (per certi versi simile al D’arrigo di Horcincus Orca) che nella tensione morale, tirata simile alla corda del cane che porta a spasso, qualifica come dannato un sistema democratico che nasconde più insidie nel profondo, dalla mediocrità fino all’ignoranza. Emergono l’ambiguità della vita e le contraddizioni, le stesse che costringono a vedere da una parte che si “campa” e dall’altra che si muore “pensando”!!! in un movimento fatto di azioni incerte che pongono l’uomo oltre lo specchio, al di là dello specchio su un piano continuato, alla Orson Welles di “Quarto Potere”, per raggiungere la scienza costruita sulla cultura e le armi della cultura, e quindi del potere. Il potere che corrode i luoghi della decisione soprattutto quando è al servizio di indecenti, istituzionali, eletti che nonostante l’ultima parola sempre indecenti istituzionali restano; Sciacca pertanto si fa coinvolgere nella sintesi di un ragionamento che tuttavia gli da la possibilità di dimostrare con questo lavoro, ed una volta per tutte, che la cultura è versatile, troppo, ma non fino al punto da essere mignotta.

Il racconto prevale rispetto alla tecnica che l’autore esprime nella riproposizione mentale che ognuno di noi ha se pensa alla sua fisiognomica facciale perché quando intervistato o interrogato chiude l’occhio destro (almeno questo) per lanciare il proprio sguardo all’orizzonte. Sciacca conosce Acireale, la conosce pure bene, il mare, la montagna, il degrado, i suoi paradossi, le falsità, i tanti “cornuti”, gli usurai, i “sinsali” e tutta a “cumparanza”, la falsa borghesia, benevola all’esterno, ma pettegola nel carattere e nel divenire quotidiano; quella falsa borghesia che dal dopoguerra ad oggi è stata in un ballo incessante prima di Aleppo, poi di Nicolosi, poi di Bertazzi, Basile, una parte di Filetti, financo Catanoso e in ultimissima di D’agostino. Quella borghesia dalla quale occorre scappare lontani come “Nella seduzione altrove” di Dacia Maraini perché potente nel distruggere aspirazioni e velleità soprattutto se volte al benessere di stato od allo stato del benessere.

Una lezione americana alla Montanelli che tutela il silenzio della riflessione nella sala dei colloqui; ma se è vero che Disraeli diceva di Gladstone: «Io non gli rimprovero di barare al giuoco: ogni uomo politico lo fa. Gli rimprovero di dire ch’è stato Dio a infilargli la carta nel polsino» …possiamo rimproverare ad Alfonso Sciacca che la sua anomalia letteraria di fine impero è un arca di Noè…..ma non di certo per garantire il tentativo di sopravvivenza della specie.

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