venerdì, Marzo 29, 2024
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GIULIA, di Maurizio Blini

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Il frastuono degli addetti al trasloco non si fece aspettare molto. Il campanello suonò pochi istanti prima di intravedere una enorme scala con piattaforma fare capolino dalla finestra della sala da pranzo. Il signor Pino entrò con la delicatezza di un elefante ed urlò: “…Signora, noi siamo pronti… possiamo iniziare? “. La cerimonia ebbe inizio e mobili, scatoloni e quadri presero la via più breve, quella del vuoto dei tre piani attraverso la piattaforma mobile. Mi affacciai annoiato e vidi la strada di sempre con il traffico, i rumori, gli odori della grande città. Avevamo deciso di trasferirci in campagna. Dopo una vita trascorsa a Torino, i miei genitori avevano infine scelto. “…Tu cosa fai? Vieni con noi o decidi di vivere da solo?”, fu l’impietoso ultimatum di mio padre. Avevo ormai compiuto 30 anni, mi ero laureato in giurisprudenza e facevo il poliziotto. Ero un Commissario della squadra omicidi ormai da parecchi anni ed ero veramente entusiasta del mio lavoro. Ero sereno, ma ancora non avevo trovato l’amore, o almeno, quel tipo di amore che ti conduce ad una convivenza oppure fatalmente al matrimonio. Ero in armonia con i miei genitori e con mia sorella più giovane e pertanto non avevo mai cercato la libertà e l’indipendenza che avevano portato fuori di casa molti miei amici e colleghi. Stavo bene, insomma, anche se non ero più un ragazzino. Quella decisione di trasferirci non mi aveva turbato, anzi. Avremmo abitato in un paese dell’Astigiano a poco meno di un’ora di auto. Insomma, nulla di grave, con addirittura una serie di risvolti positivi. Avevo vissuto i miei trent’anni a Lucento, in origine un quartiere periferico di Torino, che era ben presto stato inglobato nella grande metropoli ed aveva perso, nel tempo, le caratteristiche classiche di un paesino della cintura. Ma il tempo passa, ed ora eravamo tutti convinti di poter fare un salto di qualità notevole. Mi avvicinai alla mia stanza e cercai di riordinare mentalmente le idee. Tutto era ormai pronto. Mancavano solamente poche cose nei cassetti della scrivania; in un attimo avrei chiuso l’ultimo scatolone. E fu proprio mentre la mia mano liberava il fondo di uno di questi cassetti che mi ritrovai in mano un vasetto di vetro con all’interno una pallina accartocciata. Immediatamente il mio pensiero volò nel passato. Scendemmo dal filobus ridendo, si tornava a casa da scuola, come ogni giorno. Quello era il primo anno dell’istituto tecnico per geometri e Luca, Franco ed io, ci si spintonava scherzando sulla strada di casa. Stavamo costeggiando via Pianezza, quando, proprio a pochi metri da noi, dal finestrino di una cantina volò sul marciapiede una pallina di carta. Subito la prendemmo a calci e, mimando le azioni dei nostri miti del calcio la trascinammo sino sotto casa mia. Fu a quel punto che la presi in mano e cercai di aprirla. La mia curiosità fu bloccata da Luca. “…No… non aprirla … Scommettiamoci sopra! “. L’idea piacque a tutti. Era il periodo delle scommesse. Si scommetteva su tutto ed allora ognuno di noi asserì la propria profezia: “…Per me è una poesia d’amore di un uomo che non ha avuto il coraggio di spedirla…”, “Per me invece un conto della spesa superiore alle aspettative…”, “E per me, siccome arriva da una cantina, è un messaggio… come un biglietto in una bottiglia gettata in mare…”. Piacque talmente tanto che quest’ultima ipotesi fu quella che più ci fece fantasticare. “…Questo deve essere il nostro segreto. Teniamola, tra qualche tempo la apriremo e vedremo chi di noi ha vinto” esplose galvanizzato Franco. “…Giusto, perché no, l’apriremo esattamente tra un anno…”. “…No, molto di più…” aggiunsi io… “se questo è il nostro segreto, la terremo molto di più… diciamo fino al diploma…Che ne dite?”. Si giunse all’accordo. Si mise la pallina in un vasetto di vetro che nascosi in fondo ad un cassetto della mia scrivania e non ne parlammo più. Quella sera chiamai Franco e Luca e li invitai a bere una birra assieme. Franco, ormai divenuto un architetto di grido, si era sposato con una giornalista l’anno prima ed era andato a vivere in un attico in pieno centro storico, mentre Luca, dopo aver viste sfumate tutte le sue velleità di divenire un big della pallavolo, aveva optato per l’acquisto di un’edicola, sempre a Lucento. Fu dopo pochi minuti dedicati alle prime chiacchiere e alle prime sorsate di birra rossa che misi teatralmente sul centro del tavolo il famoso barattolo. Seguì un curioso silenzio interrotto da una enorme risata di Luca. ” …Non ci posso credere!…il nostro segreto!…”. Il tempo aveva sbiadito leggermente alcuni ricordi della nostra adolescenza ma non quello. Tutto tornò immediatamente in mente con una leggera malinconia. Ci eravamo dimenticati della scommessa e solo un casuale trasloco aveva fatto tornare alla luce il barattolo ed il nostro passato. “Bene…” dissi: “Questa sera sapremo il vincitore!” Non nascondemmo tra noi quell’intima curiosità; la sorte ci aveva chiamati per quel giorno: eravamo pronti. Svitai il barattolo dolcemente ed estrassi il foglio accartocciato, lo aprii delicatamente e rimasi senza parole. Con un probabile rossetto vi era scritto: “Aiutatemi vi prego sono Giulia Baratta” Il foglio passò di mano in mano con nervosa trepidazione. Ognuno di noi fu folgorato da quella frase. Giulia Baratta, era una ragazza poco più giovane di noi che all’epoca dei fatti era stata rapita e di cui non si seppe mai più nulla. Sembrava chiaramente una disperata richiesta di aiuto, un messaggio autentico… non uno scherzo… Come attoniti, ci passavamo il foglio in cerca di risposte mentre un silenzio agghiacciante aveva ormai invaso la serata. Forse Giulia era stata prigioniera in una di quelle cantine, forse era riuscita a lanciare il suo disperato bisogno di aiuto… se avessimo letto subito anziché divertirci come sciocchi adolescenti… forse…chissà.. Interruppi l’agonia. “Ragazzi, calmi: prima di tutto dobbiamo accertarci dei fatti. In fondo sono ormai passati 16 anni. Lei magari è stata liberata e non lo abbiamo saputo…ritroviamoci qui domani sera. Io mi darò da fare in archivio… ognuno di voi cerchi notizie.” Il mattino seguente, dopo una notte inquieta, chiamai subito un collega più anziano di me, l’ispettore capo Meucci, che lavorava alla squadra omicidi della Questura di Torino da ormai trent’anni e conosceva vita, morte e miracoli di quel particolare ed affascinante mondo oscuro. Non ci volle molto per sapere che il caso di Giulia Baratta era uno di quelli ancora irrisolti, uno dei tanti misteri d’Italia. La ragazza era stata rapita nel novembre di sedici anni prima e non era mai stata rilasciata, nonostante un congruo riscatto pagato dalla famiglia. Le cronache del tempo parlavano di un maniaco che non aveva lasciato tracce. Nessun indizio… Lei era scomparsa una mattina prima di entrare a scuola. Sparita nel nulla. Nessun testimone. Ad Alessandro Meucci raccontai la verità e lo coinvolsi, nonostante la sua palese perplessità. Quella sera facemmo il punto della situazione resa ormai drammatica dal peso dell’ enorme responsabilità che gravava su di noi. Un incauto gioco poteva essersi trasformato in assurda tragedia. Luca portò copie delle cronache cittadine di quei giorni, testimonianze sulla ragazza e cartine topografiche della zona. Discutemmo animatamente cercando di dribblare l’enorme senso di colpa che lentamente si insinuava in noi. L’area in cui avevamo preso a calci quella pallina di carta, era il marciapiede di uno stabile attiguo ad una vecchia fabbrica di tappeti che ora era abbandonata da tempo. Ricordarsi l’esatto finestrino da cui era uscito il messaggio era un’ impresa leggermente più ardua per i nostri ricordi. Decidemmo di aiutare la nostra memoria con un sopralluogo, quella sera stessa: a mezzanotte. La sera era tranquilla ed una leggera nebbiolina faceva capolino dalle periferie non lontane. L’umidità era la costante della stagione ed io mi raggomitolai all’interno del mio piumino d’oca blu oltremare. Il marciapiede di via Pianezza ci accolse guardingo e deserto. I lampioni illuminavano svogliati la strada. Ci avvicinammo cauti come si conviene in una vera scena del delitto. La zona era cambiata molto ed interi palazzi erano stati abbattuti per far posto a nuovi stabili residenziali. Noi fummo fortunati. Quei cento metri dalla vecchia fermata del filobus alla fabbrica ora abbandonata, erano immutati. Li ripercorremmo adagio, quasi mimando quella strana giornata di 16 anni prima. I passi rimbombavano tetri, quando tutti, all’unisono, ci bloccammo. Era quello il punto. Il finestrino che dava sulla strada era protetto da una grata sottile ed arrugginita. Dietro erano visibili delle intercapedini di truciolato anch’esso ridotto piuttosto maluccio. Franco era visibilmente teso e cercava serenità nello sguardo di Meucci che, distrattamente, masticava un bastoncino di liquirizia. Lo invitai alla calma. Primo, non eravamo affatto sicuri che quello non fosse un benché stupido e grottesco scherzo. Secondo, quand’anche lì fosse stata trattenuta prigioniera Giulia, ormai erano passati 16 anni… possibile che nessuno abbia sentito o visto qualche cosa di strano? “Dobbiamo verificare prima… calma.” Presi la torcia e mi avvicinai al portone di ingresso che divideva il palazzo dalla vecchia fabbrica. Era aperto e scricchiolò appena lo spinsi. Entrammo furtivamente nella fabbrica. Lo spettacolo era desolante. Tra rovine varie e vetri rotti erano accasciati, come vecchi animali morti, esausti macchinari industriali, così come le loro storie. Il fascio di luce cercò spazio tra tubature e cavi che penzolavano sinistramente dagli alti soffitti. Il luogo era tetro ed ogni nostro rumore era amplificato e distorto dall’ambiente circostante. Franco, da buon architetto, cercava di condurci verso l’ubicazione più probabile. Ci avviammo in direzione del muro adiacente il palazzo ma non era possibile trovarvi un varco, nemmeno nella direzione del cortile interno. Fu allora che Franco decise di scendere a vedere le attiguità del piano sotterraneo. Non eravamo così convinti di continuare, ma la curiosità aveva assalito i nostri corpi. L’adrenalina pompava forte e l’eccitazione di trovarsi casualmente in una situazione così paradossale condizionava e vinceva le nostre paure. Il piano sotterraneo era buio come la pece ed in parte allagato. Rotoli di tappeti di scarto putrescenti giacevano inermi, emanando un tanfo orribile, mentre topi ben nutriti vagavano indisturbati senza degnarci di attenzione. Arrivammo al muro di confine. Questo recava una enorme breccia proprio in corrispondenza dell’attiguo corridoio destinato alle cantine. Una grata posticcia impediva il passaggio, ma si poteva comunque vedere discretamente bene il breve corridoio con una decina di porte in legno. Dovevamo riuscire a passare, ma lo avremmo fatto la sera successiva. Sempre a mezzanotte. Il giorno seguente la mia mente non trovò pace. Cosa speravo di trovare in una di quelle cantine? Indizi, prove, tracce…dopo 16 anni? E posto che qualcuno avesse creduto alla nostra storia, cosa avremmo risolto? E se avessimo trovato tracce del proprietario della cantina? … ma poi chi porterebbe mai un rapito nella propria cantina? Gli interrogativi si sovrapponevano confusi. Era forse opportuno conoscere i nominativi degli inquilini dello stabile … ma poi? Il tempo passò veloce e quella sera, muniti di strumenti di effrazione vari, sfidammo la sorte. Luca si era procurato una torcia enorme, quelle che si usano nelle ferrovie, mentre Franco si era ingegnato nel recuperare attrezzi da cantiere atti allo scasso. Forzare la grata fu un gioco da ragazzi. Entrammo nel corridoio dello stabile e cominciammo a forzare le prime porte delle cantine. Tutto era apparentemente normale. Vino, olio, conserve varie, qualche bicicletta, qualche scatolone. Entrammo in tutte senza notare nulla di strano. Cercammo di individuare quella esatta. Provammo a misurare i passi giungendo alla cantina giusta. L’avevamo già ispezionata eppure senza risultati, senza… “Ma questa è più piccola delle altre…”. Urlò non riuscendo a trattenersi Luca. “Gli scatoloni ammassati sul fondo ci hanno tratto in inganno…” e senza aspettare un secondo cominciò a liberare il fondo del locale. Mettemmo tutto nel corridoio e illuminammo a giorno il muro al fondo. Era diverso dalle altre cantine perché era più recente… era un secondo muro. Il finestrino che dava sulla strada infatti non c’era. Ci guardammo con il sudore sulla fronte. Meucci, serissimo, sembrava incredulo ed imbarazzato. Presi il piccone ed incurante del rumore incominciai a sfondare la parete in mattoni rossi. Si frantumò presto. Quando esalazioni nauseabonde ci avvolsero, capimmo. Il fascio di luce entrò prepotente in quel loculo di circa un metro per due proponendoci un’immagine agghiacciante. Il corpo mummificato di Giulia, legato ad una catena, ci osservava disilluso. Il finestrino che dava sulla strada era sigillato con silicone. Mi sentivo svenire, mentre guardavo gli altri senza proferire parola. Il silenzio regnò sovrano per alcuni minuti. “Chiama la scientifica…” quasi sussurrai a Meucci. Tutte le prime pagine dei quotidiani riportavano la notizia. L’ostaggio era morto in mano al carnefice. Si attendeva ora l’autopsia, mentre le indagini ripartivano. La nostra strana scommessa, il caso fortuito, l’intuizione, il voler giocare ancora con la sorte 16 anni dopo, aveva risolto uno dei tanti misteri d’Italia, ma l’amarezza che ormai ci aveva contaminato non ci dava pace. Eravamo perseguitati dal rimorso. In quel fatale giorno di 16 anni prima, sarebbe potuto accadere di tutto. Avremmo potuto non degnare di uno sguardo quel foglietto, avremmo potuto calciarlo in strada, gettarlo nel primo cassonetto delle immondizie oppure, avremmo potuto leggerlo subito e, probabilmente, Giulia sarebbe ancora viva… Come poterlo sapere. Continuammo a discutere dei “se” un’ ultima sera di fronte ad una birra, senza trovare attenuanti che potessero lenire il nostro dolore. Ognuno di noi, inconsapevolmente accusava l’altro… Quella sera, a mezzanotte ci salutammo. Non ci saremmo mai più rivisti. Ci dileguammo solitari nel buio assorti in mille pensieri, inseguiti da fantasmi che non ci avrebbero abbandonato mai più.

#fancityliberinavigatori

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