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Santana – “Abraxas”

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L’insopportabile Carlos Santana di questi ultimi lustri è per me un mistero doloroso. Che bisogno c’era di mettersi completamente in mano alle odiose leggi di mercato, coi discografici pronti ad usarlo come specchietto per le allodole a condimento, con la sua chitarra divenuta petulante e posticcia, di una tediosa serie di pasticci pop finto latino, liofilizzati e inutili?

Eppure l’uomo era sempre apparso come un grande: le interviste e le opinioni musicali, sociali, politiche e religiose che rilasciava ancora negli anni novanta dipingevano la sua figura di alta e limpida spiritualità, mostrando come il suo cuore fosse al posto giusto, come i veri valori della musica e della vita fossero ben a fuoco nella sua anima.

Da tempo invece è quasi patetico sentirlo, e vederlo sulla famigerata MTV, inserire quantità industriali dei suoi licks chitarristici, ormai brevettati e decotti, su anonime basi musicali politicamente corrette, con un po’ di rock ma non troppo, di reggae e salsa addomesticati, di techno ma senza esagerare, di finto jazz, mentre il cantante presente di turno si sforza di onorare la ben remunerata ospitata con una plausibile interpretazione di se stesso, non facile sopra musiche che suonano false e artefatte come e più di quelle di Madonna.

A dirla tutta i veri Santana di eccezionale livello sono durati poco, ritengo fino al quarto album “Caravanserai” (1972). A partire dal quinto “Welcome” si è come spenta una luce, il suono ha smesso per sempre di essere sanguigno, inebriante, pericoloso, sensuale, per intorpidirsi e sbiadirsi via via, fino a diventare vuoto e irritante a partire da quel “Supernatural” del 1999 che ha rilanciato il suo nome ed il suo conto in banca, ma gli ha fatto perdere la faccia.

In questo perfetto capolavoro invece, uno dei molti della generosa annata 1970, Carlos Santana è ancora quello di Woodstock, col pizzetto e gli occhietti acidi alla marijuana, un vero figo insomma. Immutato il fascino caldo e sexy di quest’opera, a cominciare dalla splendida e trasgressiva copertina di certo Mati Klarwein, giocata sulle tonalità rosse più indovinate ad incorniciare l’altera e conturbante bellezza di un nudo di donna di colore, messo al posto di Maria in una specie di annunciazione, con tanto di arcangelo provvisto di congas!.

I brani più lineari e universali (la triade “Oye Como Va”, “Black Magic Woman” e “Samba Pa Ti” conosciuta veramente anche dai sassi), sono sapientemente intercalati ad episodi più atmosferici (l’apertura “Singing Winds, Crying Beasts” evocativa sin dal titolo ed autenticamente psichedelica, nonché la jazzata e rarefatta “Incident At Neshabur”) oppure a momenti con dominante rock blues (“Hope You’re Feeling Better” col migliore assolo di Carlos, “Gypsy Queen” messa in medley dopo la Maga Nera, e la stupenda, sulfurea “Mother’s Daughter”), fino alle cose più vicine al suo Messico, rappresentate da “Se a Cabo” ed “El Nicoja”.

Su tutti e su tutto il lavoro incessante, tenuto ben prominente nel mix, dei due percussionisti, infaticabili nel fornire insieme al batterista un groove poderoso e, a quel tempo, entusiasticamente innovativo. Pur con metà del personale del sestetto dei Santana impegnato esclusivamente a picchiare pelli, il disco conserva altresì un sorprendente contenuto melodico ed armonico.

Grazie soprattutto alla musicalità di Carlos, che è un ben particolare capobanda: non è compositore nè tanto meno cantante, non è neppure un virtuoso del suo strumento in senso tecnico, pur tuttavia il suo magico tocco, peculiare e mistico, viscerale ed elegante, sensuale e primitivo, gli ha permesso da subito di porsi al centro dell’attenzione internazionale e di condurre una lunghissima carriera, per quanto attualmente insipida ed irritante come ho sopra tentato di descrivere.

Ma in questo suo secondo, imperdibile e storico album con la sua banda tutto è ancora perfetto, è il loro riconosciuto vertice di carriera.

Pierpaolo Farina (storiadellamusica.it)

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