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Il Vescovo vende il Castello

E dàje, ci risiamo. Monsignor Antonino Raspanti, vescovo di Acireale, intenzionato a pareggiare i bilanci della Diocesi finché è nei suoi poteri, vende…il castello di Calatabiano, credendo in fede, chissà in base a quale Constitutum Constantini, che sia di proprietà della stessa. Lo vende per un milione e mezzo di euro perché ha fatto puntuali ricerche di mercato. Naturalmente le ha fatte da solo, senza disturbare alcun ufficio patrimoniale dello Stato,o, al limite, del povero Comune di Calatabiano che è commissariato per mafia, quindi non in grado di fornirgli supporto alcuno.

Una cosa pare fin troppo chiara: sarà per il covid, sarà per l’invasione dell’Ucraina, in questi momenti il modo migliore per rivendicare una proprietà pubblica (e per venderla) è quello di proclamarlo ai quattro venti, finché tutti si convincano, senza neppure dover dimostrare se esista un comodato d’uso o qualche altro codicillo che ne giustifichi il momentaneo possesso.

Nel 2018 (ancora insegnavo al Classico di Giarre) una mia alunna svolse come tesi finale uno studio analitico sul castello di Calatabiano: lo studio conteneva anche un’intervista all’ex sindaco, arch. Antonino Petralia che, pur non pronunciandosi in modo netto e chiaro sulla questione della proprietà (a proposito, ho sempre scritto che uno dei primi doveri di un sindaco è la ricognizione meticolosa di tutti i beni nel territorio)  disse che “la proprietà materiale è stata sempre oggetto di discussione… per quello che so io la Curia ha sempre vantato la proprietà di questo sito monumentale….poi ho sentito anche di interpretazioni diverse, ma naturalmente bisognerebbe approfondire per avere una contezza più efficace.” Lo stesso sindaco dichiarò che si erano spesi cinque milioni per il restauro “ di cui una percentuale minima venne messa dalla Curia”.

La storia della gestione di questo bene, relativamente agli ultimi dieci anni, è più ingegnosa di una matrioska, anche se il risultato è comunque il pieno fallimento e l’ultima trovata della vendita. S’iniziò con una società dal nome irreligioso di Cultinvest (ahi, papa Francesco!) per poi metterla in liquidazione e passare a altro  management e oggi  arrivare a una gestione emergenziale facente capo a tre sacerdoti.

L’ipotesi di vendita, ove mai attuata, dovrebbe comunque fare i conti con cointeressenze di privati che hanno ceduto in affitto i terreni, ad esempio, su cui è stato impiantato l’ascensore obliquo, per non parlare dei danni ambientali che sono stati arrecati con il profondo solco su tutto il pendio, un terreno caratterizzato da materiali geologicamente delicatissimi abbandonati a sé stessi.

In sintesi: bisogna coinvolgere con determinazione i commissari che attualmente reggono il comune per smontare la falsa questione della proprietà diocesana del bene,  e avviare, finalmente, un piano pubblico di restauro ambientale e valorizzazione turistica.

Ivan Castrogiovanni

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