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VERSO CASA: racconto di Carla Oliva

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VERSO CASA

La stazione era grigia. La valigetta marrone sgualcita di Jonathan riposava sulla sedia di plastica accanto alla sua, occupando il posto di un ragazzo con le cuffie alle orecchie e dall’aria malaticcia, che se ne stava all’impiedi, a qualche metro di distanza.

Nell’aria tetra, che odorava un po’ di spazzatura e un po’ di fumo, Jonathan allungò il collo, speranzoso di riconoscere a distanza i fari luminosi della metropolitana in arrivo, ma il tunnel era ancora buio e silenzioso – nonostante i sette minuti di ritardo annunciati dal tabellone elettronico poco più in là.

L’uomo sospirò, e per un attimo il suo sbuffo esasperato riempì di un suono nuovo l’ambiente grigio e scuro della stazione, fino ad allora accompagnato solo dallo scoppiare della gomma americana tra i denti del ragazzo con le cuffie e dal ronzio infinito dei distributori di merendine. Jonathan assottigliò lo sguardo, mentre nella sua mente si formava un pensiero per il quale, sicuramente, sua moglie, responsabile della dieta a casa, lo avrebbe preso a cucchiaiate in testa senza troppi problemi: lanciò un’occhiata fugace al distributore, che con quel rumore incessante sembrava quasi chiamarlo, e poi una al suo stomaco che gorgogliava. Distrattamente, portò il polso con tanto di orologio sotto agli occhi, per poi sospirare di nuovo: erano le ventitré e diciassette, l’ora di cena era passata già da un pezzo e l’ultima cosa che aveva ingerito era stata una ciambella ricoperta di cioccolato verso le sei in ufficio. Stava morendo di fame.

Quasi quasi…

No: scosse la testa ripetutamente tra sé e sé, e le sue guance piene tremarono leggermente. Avrebbe resistito, si disse, e piuttosto avrebbe aspettato di arrivare a casa per consumare un’insalata o della frutta: qualcosa di dietetico, insomma. Anche perché il giorno dopo, ricordò a se stesso, e qui si autocongratulò per la maturità della propria scelta, ci sarebbe stato il barbecue a casa dei vicini, quindi meglio tenersi leggeri per l’occasione.

La metro giunse alla stazione qualche minuto più tardi, mentre Jonathan era intento ad organizzare gli appuntamenti sul suo smartphone e il ragazzo, più in là, estraeva un’altra gomma da masticare dal pacchetto.

Il treno si arrestò quasi all’improvviso, con quella solita raffica di vento e quel cigolio sinistro che lo caratterizzava, costringendo i passeggeri all’interno ad aggrapparsi a qualche appiglio per non perdere l’equilibrio.

Entrambi salirono sullo stesso vagone, occupato solo da un uomo sulla trentina che digitava qualcosa sul proprio cellulare e da una donna dalla carnagione scura e l’aria orientale, con lo sguardo fisso fuori dal proprio finestrino. Jonathan prese posto davanti sul lato destro, perché era sempre stata la parte in cui si sentiva più comodo e, accanto a lui, come una compagna fedele, stette la valigetta sgualcita. Lui la guardò con tedio e insofferenza insieme: il lavoro era sempre troppo, e tornare a casa il venerdì sera a certi orari improponibili, tra l’altro senza aver finito, e dovendo portare con sé tanto materiale da completare a casa, lo metteva in depressione.

L’ennesimo pop della gomma americana del ragazzo riempì la stanza, e Jonathan si lasciò scappare uno sbuffo impercettibile, lievemente irritato.

Controllò nuovamente l’orologio: le ventitré e trentadue e la fame, insieme alla stanchezza, cresceva in maniera indicibile.

«Uffa» sentì sussurrare stancamente l’uomo che continuava a digitare qualcosa, mentre con una mano si grattava la testa.

Jonathan, nel vedere la stazione alla quale stavano sostando, resistette alle tentazione di liberarsi dalla giacca, in quanto avrebbe perso solo tempo, considerato che sarebbe dovuto scendere alla fermata successiva. Inspirò, e nell’espirare infilò l’indice e il medio tra il colletto della camicia e il proprio collo, cercando di guadagnare in maniera spicciola qualche forma di refrigerio in quello che sembrava un forno, anche alle ventitré e quarantaquattro di un ottobre inoltrato. Si allentò il nodo della cravatta e finalmente riuscì a respirare con maggiore libertà, nonostante l’insuperabile impedimento dell’aria impregnata di sudore e di polvere.

Una volta arrivato a casa, magari avrebbe potuto concedersi anche un po’ di pane e formaggio. Forse, se avesse avuto la fortuna di trovare sua moglie addormentata, sarebbe anche riuscito a rubacchiare qualcosa di più sostanzioso dalla dispensa, spiegò al suo pancione che brontolava.

L’aria asfissiante di quei pochi metri quadrati, i continui pop del ragazzo, il fischiettare acuto dell’uomo a qualche metro da lui, che sembrava aver trovato in quell’irritante passatempo il modo per trascorrere quella tratta di metro, cominciavano a pesare come non mai sulle spalle di Jonathan; il quale, a dirla tutta, quella mattina era stato costretto a svegliarsi alle cinque e mezza per partecipare con il suo capo ad una noiosissima riunione, e poi ad una conferenza da suicidio. Tutto ciò, il pover’uomo, l’aveva dovuto affrontare con a stento una tazza di latte e qualche biscotto nello stomaco.

Mentre era intento a riflettere sulla disumanità del suo lavoro, il ragazzino aumentò il volume della musica alle proprie orecchie, tanto da permettere agli altri passeggeri di beneficiare di quel miscuglio spaccatimpani di grida e chitarra elettrica.

La metropolitana cominciò a frenare nello stesso istante in cui Jonathan, stanco di non vedere altro che le pareti nere del tunnel che attraversavano, aveva cominciato a tirare la testa all’indietro per la noia.

Stavolta, il rumore che accompagnava la brusca frenata della macchina fu diverso. Jonathan non ebbe effettivamente il tempo di capire in che modo, perché, nonostante si stesse tenendo con una mano alla sbarra accanto al sedile, si ritrovò comunque dall’altra parte del vagone, a terra, tutti gli arti doloranti e la testa che, avendo appena urtato contro il bordo di un sedile, sicuramente aveva appena collezionato qualche bernoccolo.

Tanto era il dolore, e lo shock, che sulle prime quasi non fece caso al grido agghiacciante e disperato che proveniva da fuori il treno; se ne rese conto solo quando, riassestatosi, si accorse di essere tutto intero e che, malgrado anche gli altri tre passeggeri del suo vagone, allo stesso modo, fossero stati scaraventati a destra e a manca dal contraccolpo, il treno era ancora integro.

Il primo ad alzarsi e a guardare fuori dal finestrino fu il ragazzo, le cui cuffie erano rimaste a terra, attorcigliate tra di loro accanto all’uscita di sicurezza; a lui seguirono gli altri e anche Jonathan, in un misto di curiosità e preoccupazione.

Sulla piattaforma si era creata una folla di gente più o meno sconvolta, una donna che con le mani alla bocca continuava a gridare e a rantolare frasi senza senso, cercando di spiegare a tutti quelli che arrivavano che là sotto c’era un uomo, che lei non aveva capito cosa stava per fare e non era riuscita a fermarlo e, oddio, fatelo uscire.

Jonathan, mentre il treno indietreggiava lentamente, nell’osservare dal finestrino quelle immagini che si facevano sempre più lontane, avvertì una stretta allo stomaco.

Nessuno, in quel piccolo vagone, osò dire nulla. I quattro ascoltavano quel brusio di fondo impossibile da interpretare. Con i volti quasi schiacciati contro il vetro del finestrino, cercavano di ricostruire le immagini da quello spiraglio di luce che gli concedeva lo spazio stretto tra la parete del tunnel, nel quale erano rientrati dopo la retromarcia della metro, e la struttura di quest’ultima, che oscurava la vista.

Tre quarti d’ora più tardi, avendo potuto distinguere dallo spiraglio dei colori catarifrangenti e delle divise, uniti alle poche parole che, nel caos generale, erano riusciti a captare da quel vagone nell’oscurità, avevano compreso che sulla piattaforma prima c’era un uomo, che poi si era buttato di sotto: e che loro, cioè il loro treno, l’avevano ucciso, forse.

Jonathan, i capelli biondicci un po’ sudati, si tolse definitivamente la giacca e allentò ulteriormente il nodo della cravatta, perché adesso non era più solo l’aria intorno ad essere asfissiante.

Quella sera, Jonathan tornò a casa alle ore due e quarantacinque del mattino. Abbandonò la valigetta marrone per terra, all’ingresso, senza farvi troppo caso. Lasciò la giacca in soggiorno, passò di fronte alla cucina e andò dritto a letto.  

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