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IL FREDDO IN CANNA, di Samuele

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Andrea si fermò di colpo.
D’un tratto, tutto pareva essersi fermato dopo quelle parole che erano risuonate nell’aria limpida della sera, riscaldata dal tepore argentato della luna e dal fiato dei due uomini che occupavano il campo.
Andrea era inginocchiato sul terreno; i fili d’erba fresca titillavano il cotone dei pantaloni, baciando il tessuto e trasmettendo tramite esso una purezza estrema alla pelle. La pelle che ora sudava. Sudava sudore freddo. Gocce che si raccoglievano in diversi punti, affluendo tra di loro, smarcando i vari peli, fino a raggiungere l’evaporazione o la traspirazione. Perché è così che funzionano le cose: spesso nasciamo tutti con uno scopo ma le conclusioni sono sempre due…
Il cuore di Andrea batteva forte come quello di un corridore che aveva percorso venti chilometri, alimentato dal timore di vedere la morte in faccia. Ecco. Ora. Sì. Ora la vedeva. Era davanti a lui e distendeva una mano scheletrica, viscida e putrefatta, avvolta nel nero dell’ignoto, come il volto tumefatto. Gli sorrideva e gli diceva: “Vieni con me, è arrivata la tua ora” con quel tono freddo e la voce cavernosa, così cavernosa da seccare la lingua. Andrea boccheggiava e sudava. Le pupille rimanevano ferme, immobili a fissare quella mano scheletrica che in realtà si rivelava essere la canna lunga e fredda di una pistola. Lungo quel tubo, di cui Andrea avvertiva il gelo metallico, scorreva la scritta della marca: Sig-Sauer P220. E ad impugnare quella bestia, una mano avvolta in un guanto di pelle nera che facilmente era confondibile con la mano viscida della signora in nero. L’indice sfiorava il grilletto e il verde degli occhi di Andrea penetrava il buco nero dell’arma, aspettando di vedere il proiettile uscire e bucargli la fronte. Nessun dolore, nessun lamento, solo morte istantanea. Andrea piangeva.
Ad un certo punto, l’uomo avvolto nel montgomery prese a parlare, la voce agghiacciante e sibilante come quella di una vipera occultava benissimo quel poco calore che l’accento romano normalmente riserva.
“Tu” uscì questo monosillabo dalle sue labbra invisibili, la pistola era ferma, lo sguardo di Andrea immobile, le membra dell’uomo inflessibili.
Andrea ripeté un “sì?” nella sua testa. Un “sì?” che non uscì mai dalla sua bocca, non attraversò mai la sua gola, non mosse mai le sue labbra umettate dal terrore. Iniziò a singhiozzare, come uno che ha la febbre a quaranta e non vede il flacone della tachipirina da almeno un anno.
“Abbassa lo sguardo” ordinò l’uomo, criptico.
Andrea obbedì.
Le sue labbra ora sfioravano i fili d’erba che parevano suggerirgli una via di fuga, mentre alcuni rametti, nascosti nel terriccio, accoglievano la confessione di tutti i suoi peccati, come preti nel confessale. La schiena ripiegata, le braccia distese sul tappeto erboso e le mani che si aggrappavano nostalgicamente alla vita. Un passo falso e quella pistola gliel’avrebbe portata via e, a quel punto, sarebbe precipitato in un burrone profondo e oscuro, dove regna l’oblio degli uomini.
“C-c-che c-cosa v-uoi…”
“Zitto!” gridò quello, tirandogli un violento calcio sulla bocca. Andrea barcollò e ruzzolò sul prato, inghiottendo terra mista al sangue che gli scivolava dal labbro inferiore.
Posò le due mani a terra e si rimise in ginocchio lentamente. Poi, rivolse di nuovo il suo sguardo impietrito verso l’uomo che brandiva la pistola, il sangue luccicava con i suoi riflessi argentati dalla luna.
L’uomo si avvicinò, l’andatura veloce e il passo sordo come quello di un felino, anche se si percepiva un vago fruscio quando le scarpe calpestavano il terreno, scostando i fili d’erba.
Avanzava verso Andrea e, quando si trovava abbastanza vicino che quasi poteva baciargli le labbra, agguantò il suo volto sporco di terra e digrignava i denti come se volesse masticarlo. Finalmente, Andrea poteva guardare l’odio dei suoi occhi, che emergeva chiaramente nel buio del cappuccio, divorandolo. La stretta del tizio era vigorosa, la pelle delle mani ruvida e sentiva la mandibola scricchiolare.
“Sai benissimo perché sono qui” disse quello. “Mi hai chiamato tu, dopo che hai scoperto l’identità dell’assassino di tuo fratello, dopo che ti sei ciecato con tutte quelle pippe mentali dalla sua morte, dopo che la Polizia ha compreso che tu potevi che non essere innocente e ti hanno rilasciato. Hai capito, ora, come si sta in prigione? Hai capito qual è il mio vero nome? Hai capito perché sono scappato?”
Ad ogni “hai capito…” l’uomo gli sferrava un cazzotto con l’altra mano. Benché non fosse mancino, anche con la sinistra sapeva appioppare dei pugni dolorosi. Andrea sapeva che la sua mandibola non avrebbe resistito per altri due o tre colpi, sputò del sangue a terra, più per disgusto nei confronti dell’uomo che aveva davanti che per il bisogno. Il suo respiro si fece più rapido e il fiato profumava di eroismo, pur se ancora le corde vocali fossero impregnate dall’afrore della paura.
“Non ho mai smesso di credere. Ero sicuro ch’eri stato tu, quindi mi sono messo subito a riflettere su cosa avresti fatto, o meglio, su chi eri veramente. Le lettere che ho trovato nel cassetto del comodino, in camera da letto di Lorenzo, mi hanno fatto pensare. Ho pensato anche all’alibi che il tuo amico e tu avete recitato al commissario prima e al procuratore dopo. E, quindi, mi sono mosso e ho capito che eri stato tu. Martedì mattina era Narcisio che avevo visto uscire da casa di Lorenzo e il pacchetto che teneva in mano erano i soldi del silenzio. Ma lui li aveva rifiutati, vero? Sapevi del diabete e così ne hai approfittato: la sera dello stesso giorno, durante la festa di fidanzamento, ti sei imbucato e hai avvelenato lo champagne con una forte dose di zucchero, abbastanza da essere letale per lui, ma una sciocchezza per tutti gli altri. Quindi te ne sei andato via subito, senza suscitare alcun sospetto. Peccato, però, che Maria t’avesse visto. Quindi hai incominciato a metterla sotto torchio con la storia del fantasma di Lorenzo, fino a mandarla in manicomio. Ed ora, che vuoi fare? Uccidermi? Non servirà a niente: il commissario è già sulle tue tracce e il procuratore ha dato l’ordine di arrestarti.”
“E queste cazzate chi te l’ha raccontate, sgorbio?”
“Lo so, perché li ho chiamati io” sussurrò Andrea saccente. La sua superbia fu pagata con un’altra sberla, questa volta data con l’altra mano. Le guance di Andrea erano più rosse che mai e i muscoli del volto si erano contratti in una maschera rigidissima.
“Sei un povero rammollito. Ora basta. Ti uccido lo stesso, tanto come dici tu: ormai mi sei inutile, visto che hai avvertito la Polizia. Inutile sia da vivo che da morto, come ostaggio ferito saresti un problema, perciò…” l’uomo allungò di nuovo il braccio e la pistola tornò a tormentare Andrea.
La canna ora poggiava sulla fronte di Andrea, poco sopra la radice del naso e i suoi occhi erano chiusi: non voleva più rivedere quella donna in nero che lo trasportava via dopo lo schioppo, nossignore.
Il metallo era freddo come il pensiero di morire e udì lo scatto della sicura, un suono quasi impercettibile ma comunque capace di rompere quel silenzio di attesa che stava dipingendo l’atmosfera di nero. Un nero che presto si sarebbe colorato di rosso.
Stavolta non ce l’avrebbe fatta, il colpo sarebbe partito e già sentiva il proiettile che bucava le meningi. Non doveva permetterglielo: doveva pensare a Maria, non poteva lasciarla sola con la preoccupazione di Lorenzo e le ci mancava anche un altro morto, come se non avesse sofferto abbastanza, poveretta. Poteva sposarla, in fondo, era sola ed era la ragazza di suo fratello e come aveva detto il commissario: “il movente è passionale”. Non sarebbe mai arrivato ad uccidere Lorenzo per una donna, ma quella situazione si presentava allettante. Quand’ecco che il filo dei suoi pensieri e delle sue figure fu interrotto di nuovo dalle parole fredde dell’uomo, forse, le ultime che avrebbe udito prima di morire.
“Sei un tipo loquace, prima mi hai fatto venire la pelle d’oca, quando hai ricostruito l’omicidio di quel verme. Perché questo era: un verme viscido che strusciava addosso alle donne. E so già cosa stai pensando, ma basta chiacchiere.”
Andrea sbirciò la mano del killer e notò che l’indice già schiacciava il grilletto che, calcolò Andrea, si trovava a metà strada dallo sparare. Strinse i denti e chiuse gli occhi, il sudore gli bagnava la fronte e le lacrime cominciarono a scendere, mentre implorava al Signore di avere salva la vita con ogni muscolo del suo corpo.
Boom lo sparo risuonò fortissimo, spargendosi per il vuoto del campo, facendo muovere i rami delle piante e scuotendo le pigne. L’atmosfera sembrava essersi rotta e il cielo cadere sulle loro teste, in una visione di morte, con delle sfumature rosse, come carta bruciata che pioveva dall’alto.
Andrea cadde a terra, la sua schiena fu accolta dall’erba del campo e il suo volto cominciava a essere più bianco, i suoi occhi erano chiusi. Aveva vissuto una vita troppo breve, ma aveva saputo dare valore a tutto e a tutti quanti, apprezzando le passioni di ciascuno e senza ripudiare le proprie qualità.
Tuttavia, più credeva di essere morto e più si rendeva conto che forse la sua preghiera era stata esaudita. Non vedeva il bianco davanti a sé, né il rosso dell’inferno. Solo il nero dell’ignoto che le sue palpebre avevano riprodotto, sbarrando i suoi occhi verdi. Quando li riaprì, si focalizzarono immediatamente sulla professionalità dell’uomo con l’impermeabile cammello e la cravatta sotto. Quell’uomo gli sorrideva, ma la pistola che fumava la brandiva uno avvolto in una giacca di fustagno, con gli occhiali da sole che pettinavano i capelli a caschetto e un’espressione autoritaria. E poi, quattro uomini nell’uniforme blu a maniche corte, con i gradi sulle spalline tabulari, sfumati dai riflessi elettrici del lampeggiante sulla cappotta di un’Alfa Romeo.

#fancityliberinavigatori

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