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Il primato antropologico del PCI e l’obiezione sociale di Giuseppe Franchina

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Non vi è dubbio che il valore di un sistema – senso fondato sulla sigla PCI mantiene ancora oggi una sua radicale attualità. Ciò è, in parte, dettato da una lotta di continua integrezza, da un “materialismo storico” strutturale ideato da Gramsci (in parte da Togliatti) ed incarnato da Berlinguer in una staffetta di azioni senza inganni volti alla individuazione di un perimetro certo, storico, effettivo, di un nucleo di diritti imprescindibili ed inalienabili per l’uomo all’interno della immaginazione (quì la forza) delle Costituzioni parallele.

Il tentativo della costruzione di un’Europa a partire dall’ equazione di massa che si traduce pertanto nella formula: lavoro uguale proprietà; ma ancor più nel sogno di un obiettivo finalistico, che nella sua dinamica di raggiungimento ha posto un apparente antecedente logico sovrapponibile, in quanto tale, alle premesse di quello stesso pensiero: il sogno della parità tra gli uomini.

La nascita di un “nuovo” soggetto politico, rappresentato dalla classe operaria, è pertanto l’espressione di un chiaro ed indiscusso primato antropologico del pensiero comunista sulla società e sulla politica. L’intuizione allora si afferma nella voglia ostentata meno dal primo (Togliatti) quanto più dal secondo (Berlinguer) di intravedere nella “rappresentanza” il meccanismo evolutivo di una lotta di classe che viceversa, ed ovvero se non avesse intercettato la democrazia, sarebbe rimasta autoreferenziale e priva di ricadute positive. Comunismo è quindi il sostantivo che, a di là di qualsiasi “zeugma” politico, si fa verbo e che a sua volta incontrando la sovranità popolare, non di professione, si avvia ad una svolta fondamentale irrealizzata: dalla parità all’uguaglianza.

Il pensiero però si tradisce non tanto in evidenti e “certi limiti che sono superiori a tutte le democrazie formali”, non tanto per fenomeni congiunturali, come la caduta del muro di Berlino e l’incipiente divenire della globalizzazione in uno spazio giuridico/politico indefinito, quanto nell’illusione (ed aveva ragione Curzio Malaparte in “Tecnica per un colpo di Stato”) di poter rompere il patto sociale tra le classi fondato, sin da allora e fino alla modernità, sulla tensione dialettica tra capitale e lavoro.

Il progresso come categoria contemporanea inidonea a rappresentare tale patrimonio viene raggiunto da una moltitudine di prospettive, dovute a particolari fragilità partitiche, che lo rendono indeterminabile rispetto ad un modello unitario dentro cui tentare di unire le visioni tradizionali; e poi il banco di prova delle riforme, la concordia come presupposto per la salvaguardia dell’unità nazionale, dello sviluppo sociale; ed infine l’uso dell’economia. Dal comunismo al progresso, come torsione semantica e pertanto post-ideologica, il passaggio è breve, ma la differenza è tanta; a spiegarlo meglio potrebbe oggi esserci una revisione sull’utilità storica del governo Mitterand o, seguendo altre fondamenta meno orientate all’avanguardia di massa, la terza via di Giddens e Blair, ma tutte depauperate nel rapporto tra Stato e società, di un indice di giustizia come motore della lotta di classe e come seme della coscienza popolare.

Già massa (comunismo, poi progresso) e popolo (libertà e sviluppo) in una contraddizione permanente che conduce, pur partendo da obiettivi comuni, a spiegare il fenomeno politico su basi interpretative diverse. Ad intravederlo è Proudhon con l’intuizione sulle leggi della società fino al “La teoria della proprietà” dove dichiarando che “la proprietà è un furto”, “la proprietà è insostenibile”, “la proprietà è dispotismo” e “la proprietà è libertà” si riferisce chiaramente al prodotto del lavoro individuale come esercizio da cui si ricavano beni dalla vendita dei propri servizi e del proprio surplus. È Foucalt con la visione critica del potere per il potere, della clandestinità come la peggiore delle situazioni che produce gerarchie e non dibattiti., ed in ultimo è Pasolini nell’abbandono alle vecchie, e stantie, categorie mentali di civilizzazione nello scritto “Potere senza volto” (Scritti Corsari).

Oggi non è!!!!! perchè ha ragione Reichlin nel sostenere che la sinistra non esiste più!

Ad ucciderla definitivamente: il logoramento, nonché inesistenza, della categoria progresso, l‘incapacità di rinnovarsi culturalmente, la gestione destrutturante dell’economia, la ideologizzazione dei servizi scuola, università e lavoro, la subordinazione sindacale con la legge Ciampi-Giugni, il metodo della concertazione fino alla follia del dialogo sociale (Libro Bianco 2001); le “catene” delle’antimafia, dei “giudici di partito” e del “partito di giudici”….ed in ultimo della illusione destrutturante targata Renzi.

È questo il momento in cui prende vita (1994) un percorso politico che diserta la sua stessa origine, costituendone il presupposto teorico di una obiezione sociale rispetto al fallimento del potere di massa, anche nel concreto la Destra è rimasta culturalmente indietro rispetto alla svolta di Fiuggi! La differenza tra la destra di governo dalla destra che governa residua non in una inconciliabilità assoluta dei progetti, ma nelle difformi prospettive di gestione di processi politici che hanno come unico contenuto della ricerca lo sviluppo dell’uomo nelle sue libertà. Certo è che potrebbe apparire pretestuoso se non contraddittorio parlare di libertà nell’autorità! Autorità non è altro, per dirla con parole care ad Almirante, che la disivindualizzazione del soggetto e la sua trasformazione in costante entità di valore.

Ecco allora che corretto l’ordine di senso dei presupposti e principi politici si può giungere ad un’affermazione di massima: non più Dio –Patria – Famiglia, ma Valori, Identità, Metodo (VIM uguale Forza). Spesso si accusa la Destra Italiana di essere liberale, privatista, borghese e financo corporativa; invero tali accuse trovano riscontro reale nel fallimento degli uomini più che nel progetto politico se consideriamo che la volontà di riflessione porta al superamento del soggetto per addivenire alla attualità dell’inserimento del soggetto in una figura soggettiva più ampia. L’abbandono di singole unità, di individualità, considerate viceversa fondamentali nella organizzazione di uno stato con un assetto sociale fondante: la famiglia, le associazioni, le università, i partiti, i territori, le istituzioni, l’identità, i servizi, gli enti locali, il lavoro.

La capacità mista alla necessità di mettersi in discussione non è un luogo comune soprattutto se si riferisce ad un indirizzo politico che tutti conoscono anche se non ci sono mai stati. L’intelligenza di una classe dirigente non può e non deve essere sprecata in ambizione, ma nel tentativo di costruire una nuova centralità politica, impavida rispetto all’uso ed al valore della dinamica dei rapporti di dialogo e confronto. La Destra, tutta, deve allora abbandonare da subito il pensiero di una società e civiltà istituzionalmente visiva, perché forte nel tempo di una certezza formativa: non si possono sostituire le immagini con la concretezza dei fatti che nascono dalle idee. Pensiero ed azione sono allora le coordinate culturali di un movimento unico che deve ante litteram capire che il confronto della eterogeneità della base va tradotto in un linguaggio universale, che anticipi i bisogni prima ancora di averli percepiti; ci si deve allora mostrare reticenti verso una destra autoreferenziale ad effetti speciali e favorevoli alle suggestioni plurali di una saggezza della necessità che si trasformi in una vera ed innovativa tensione politica.

Le sfide della Destra, le obiezioni (come spazio di libertà dell’individuo nella società organizzata), allora sono fondate: sul rilancio della questionesociale(famiglia,immigrazione,sicurezza,servizi,sistemafiscale,lavoro);sulla questione meridionale come questione nazionale ed europea; sulla lotta all’Europa finanziaria; sul diritto alla velocità ed alla comunicazione (infrastrutture strategiche); sul un nuovo dialogo fra Costituzione ed enti locali; sulla questione energetica; sull’affermazione della libertà dell’uomo; sulla meritocrazia; sul rilancio della piccola e media impresa; sulla definitiva individuazione di una classe media di italiani sui quali investire per ridurre il divario incipiente tra povertà e ricchezza.

Itaca sarà lontana?

(Giuseppe Franchina)

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