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100 anni di Leonardo Sciascia, grande scrittore e intellettuale scomodo.

Il 2021 sarà l’anno di Dante (morto nel 1321) ma anche quello di Dostoevskij (nato nel 1821). Tuttavia per noi siciliani, e non solo, è anche l’anno in cui ricorre il centenario di un grandissimo scrittore e intellettuale: Leonardo Sciascia.

Scrittore, politico, giornalista, saggista, intellettuale sempre “in direzione ostinata e contraria”, Sciascia è stato anche un maestro di scuola elementare, un pedagogista, uno che credeva nell’importanza dell’istruzione per contrastare la mafia.

La mafia che era ed è il cancro della sua amata Sicilia -quella fatta di sentimenti, abitudini e atteggiamenti contrastanti, che egli mise insieme coniando il termine di “sicilitudine”- ha saputo ricordare il suo illustre figlio, organizzando a Racalmuto, suo paese natale in provincia di Agrigento, una serie di eventi. Innanzi tutto ha inaugurato un monumento in suo onore, realizzato dall’ingegnere racalmutese Francesco Puma. Successivamente, la Fondazione Sciascia, il cui direttore letterario (designato dallo stesso Sciascia) è il professore Antonio Di Grado (già docente di letteratura italiana presso l’ateneo catanese), ha dedicato una manifestazione che ha coinvolto oltre che le istituzioni politiche locali e regionali, intellettuali e studiosi che nel corso della loro esistenza si sono occupati di questo scrittore e intellettuale mai in linea con il potere. A coordinare le testimonianze, il nipote, il regista Francesco Catalano, custode della memoria del nonno, nonché fine conoscitore delle opere dello stesso. Una serie di interventi che ha messo in luce a tutto tondo la figura di Leonardo Sciascia, innanzi tutto come intellettuale sempre in opposizione al potere e sempre alla ricerca della verità.

Monumento inaugurato venerdì a Racalmuto

Antifascista prima (insieme ad Emanuele Macaluso nel 1941 nel gruppo di Caltanissetta), Comunista poi (scrisse nel 1965 «L’Ora sarà magari un giornale comunista, ma è certo che mi dà modo d’esprimere quello che penso con una libertà che difficilmente troverei in altri giornali italiani. In quanto al mio essere di sinistra, indubbiamente lo sono: e senza sfumature.»), ricoprirà il ruolo di consigliere comunale a Palermo (città in cui si trasferirà successivamente) per il PCI dal 1975 al 1977. Si dimetterà nel 1978, proprio per i contrasti (anche pesanti) con i vertici del partito, la sua contrarietà al compromesso storico e a certi estremismi, per poi approdare al partito Radicale, con il quale si candiderà un anno dopo, per diventare, nel 1979 appunto, deputato nazionale, fino al 1983. Si occuperà di ricercare la verità su Moro, sul perché non si sia voluto trattare con i brigatisti, oltre che di antimafia. Detestava il pentitismo, ma anche le torture inflitte ai brigatisti da parte della polizia.

Detestava e combatteva la mafia, per l’appunto, anzi parlò di mafia prima di chiunque altro, quando ancora al solo parlarne si veniva tacciati di traditori che volevano mettere in cattiva luce la Sicilia. Evidenziò la capacità che aveva la mafia di tessere relazioni con il potere politico (“La mafia era, ed è, altra cosa: un «sistema» che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel «vuoto» dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debole o manca) ma «dentro» lo Stato. La mafia insomma altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende ma soltanto sfrutta”), ma allo stesso tempo ebbe a criticare il pool dell’antimafia di Palermo, reo di manie di protagonismo e carrierismo. Ovviamente le sue critiche vanno anche ai cattolici (in A ciascuno il suo Sciascia fa dire al professor Roscio “Dico cattolici per modo di dire. Mai conosciuto qui un cattolico vero e sto per compiere novantadue anni… C’è gente che in vita sua ha mangiato magari una mezza dozzina di salme di grano maiorchino fatto ad ostie ed è sempre pronta a mettere la mano nella tasca degli altri, a tirare un calcio alla faccia di un moribondo e un colpo a lupara alle spalle di uno in buona salute…”) ai rapporto tra chiesa cattolica e potere (Todo Modo). Insomma, non risparmiò nessuno ed entrò sempre in contraddizione, anche verso sé stesso (“contraddisse e si contraddisse” come ha ricordato Sciascia intitolandogli proprio un saggio, il professore Castelli) ma alla base di tutto restava sempre la voglia e la ricerca perenne della verità. Quella verità che spesso, proprio perché sotto gli occhi di tutti, non si trova mai, ma anche la solitudine che prova chi cerca di far luce ad un mistero e si scontra con l’indifferenza e l’omertà degli altri, come il povero professore Laurana di “A ciascuno il suo”(“Era un cretino!” disse Don Luigi).

La ricerca della verità che in letteratura diventa creazione, sin dai primissimi anni ‘60, di romanzi gialli (il primo, “Il giorno della Civetta” del 1961) e se vogliamo, anche a dare il via ad un genere che in Sicilia troverà terreno fertile, con il successo del commissario Mantalbano di Andrea Camilleri, che dirà di lui “Quando mi sento le batterie scariche corro dall’elettrauto Sciascia: mi prendo un libro, qualsiasi, me ne leggo un po’ di pagine e me ne esco con le batterie ricaricate.” Tra i due ci sarà sempre una lunga amicizia (entrambi della provincia di Agrigento), fatta anche di contrasti e litigi, ma sempre nel reciproco rispetto personale. Fu proprio Sciascia a presentare Camilleri ad Elvira Sellerio e a consigliarle di pubblicare nel 1984 il romanzo storico “La strage dimenticata”. Proprio quella casa editrice palermitana nata nel 1969, che pubblicherà tutte le opere di Camilleri e che deve molto a lui. Fu proprio Sciascia, infatti, a spingere Elvira ed Enzo Sellerio a mettere su una casa editrice, affinché anche la Sicilia avesse una casa editrice che si occupasse di letteratura. E lui di quella casa editrice fu “una specie di direttore editoriale, di consigliere e lettore, di amico, di ufficio stampa e a capo delle pubbliche relazioni”. Lui che è stato un fine intellettuale e non soltanto un autore di romanzi “civili”, come forse erroneamente è stato troppo a lungo considerato. Come ci ha ricordato il professore Di Grado, “finalmente oggi, a poco più di 30 anni dalla morte, ci si accorge di quale grande scrittore sia stato, tanto che qualche quotidiano è arrivato a definirlo “il più grande scrittore italiano dal dopoguerra ad oggi”. Uomo coltissimo, appassionato sin da giovane di letteratura francese (a cui fu introdotto sin da bambino da un altro celebre maestro elementare che diventerà suo modello: Vitaliano Brancati), ma anche di arte e incisioni. Ma certamente il lato “civile” è forse quello che più lo ha reso celebre, proprio in quegli anni in cui anche il cinema era impegnato e ha tratto dai suoi libri (talvolta liberamente) film molto belli: da “A ciascuno il suo” e “Todo modo” di Elio Petri, a “Il giorno della civetta” di Damiano Damiani, a “Cadaveri eccellenti” di Francesco Rosi (tratto dal romanzo “Il contesto”) o “Una storia semplice” di Emilio Greco. E tanti e tanti altri.

Direi che è il momento di rispolverare le sue opere per accorgerci, forse, di quanto fosse stato, suo malgrado, profetico, perché è proprio la letteratura a riuscire spesso a fornire le migliori chiavi di lettura della realtà. Buona lettura!

(Valeria Musmeci)

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