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17 maggio 1972, omicidio Calabresi

Luigi_Calabresi_1

 

«Qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi per falso in atto pubblico. Noi, che più modestamente di questi nemici del popolo vogliamo la morte… ». Parole violente apparse sul giornale Lotta Continua, che fu il principale megafono della campagna d’odio e di una sentenza di condanna a morte nei confronti di un onesto servitore dello Stato. Una pagina buia nella storia politica e culturale dell’Italia del Novecento.

Il clima di conflittualità sociale manifestatosi già all’inizio degli anni Sessanta, raggiunse la fase di maggiore criticità verso la fine del decennio, in particolare con l’inizio della contestazione studentesca del Sessantotto. Principale teatro di questi eventi fu la città di Milano, dove forze extraparlamentari e di marcato spirito rivoluzionario, come la formazione comunista Lotta Continua, alimentarono una violenta contrapposizione alle istituzioni e alle forze dell’ordine.

Dall’altra parte della barricata c’era la Questura milanese, impegnata a contenere il fenomeno attraverso uomini come il commissario Luigi Calabresi, vice capo della squadra politica della Mobile. Il suo nome cominciò a entrare nel mirino delle frange rivoluzionarie dopo la strage di Piazza Fontana, il 12 dicembre del 1969. Fu uno spartiacque nella storia della Repubblica e nei rapporti tra forze dell’ordine e contestatori.

Il giovane dirigente venne incaricato delle indagini e la sera stessa della strage eseguì una serie di arresti negli ambienti estremisti, specialmente anarchici. I sospetti si concentrarono su uno dei fermati, Giuseppe Pinelli, di professione ferroviere. L’uomo fu trattenuto per tre giorni e sottoposto a un estenuante interrogatorio; al terzo il suo corpo cadde dalla finestra dell’ufficio del commissario, schiantandosi a terra dopo un volo di quattro piani.

Una tragica morte che suscitò indignazione nell’opinione pubblica e nella stampa di sinistra. Indignazione che si trasformò in rabbia feroce dopo le conclusioni dell’inchiesta condotta dal pm Gerardo D’Ambrosio, che definì la morte come accidentale, causata forse da un improvviso malore, escludendo le piste del suicidio e dell’omicidio. Una verità processuale rispedita al mittente dall’intellighenzia di sinistra, rappresentata da scrittori, giornalisti, registi e attori di chiara fama.

Tutti si ritrovarono uniti nella sottoscrizione di un appello pubblicato sul settimanale L’Espresso, in cui si rivolgeva un pesante atto d’accusa rivolto «ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni», chiedendone l’allontanamento. Aspetto eclatante di unacampagna d’odio di cui per oltre due anni fu oggetto Calabresi e che nell’organo di stampa diLotta Continua ebbe il suo centro propulsore.

Per le strade e sui muri rimbalzava una pesante sentenza di condanna: «Calabresi, assassino!». Negli ambienti istituzionali si avvertiva il timore che qualcosa di irreparabile potesse accadere, per cui, all’inizio del 1972, si ipotizzò una sua promozione ad altro incarico. Proposta che incontrò il rifiuto del 34enne, padre di due figli e di un terzo che sarebbe arrivato di lì a qualche mese.

In un clima incandescente, il 7 maggio di quell’anno si tennero le elezioni politiche, destinate ad essere ricordate per l’ennesima protesta repressa nel sangue. Durante il presidio antifascista organizzato da Lotta Continua, il ventenne Franco Serantini venne pestato dagli agenti e arrestato, morendo in carcere dopo due giorni di agonia. L’episodio finì per accelerare una sentenza di condanna a morte che già era in discussione tra i vertici di LC.

Alle 9,15 di mercoledì 17 maggio, Calabresi uscì dal portone di casa, in via Cherubini a Milano, avviandosi verso la sua “Fiat cinquecento”, parcheggiata poco distante. Il tempo di infilare le chiavi nella serratura che un uomo, sceso da una 125 blu, gli si avvicinò freddandolo con due colpi di pistola alla testa e alla schiena. Inutile la corsa all’ospedale San Carlo, dove i medici non poterono che constatarne il decesso.

Gli investigatori s’indirizzarono verso piste senza sbocco, mentre emersero i primi dubbi e pentimenti sulla campagna d’odio sostenuta contro la vittima, guardando anche ai riscontri emersi da una successiva perizia sulla salma di Pinelli, che confermava l’ipotesi del malore, e da una sentenza del Tribunale di Milano, che accertava l’assenza di Calabresi al momento della caduta del ferroviere. Tuttavia il clima non si rasserenò affatto e l’anno dopo, in occasione di una cerimonia in ricordo del commissario nel cortile della Questura milanese, venne fatta esplodere una bomba a mano, che lasciò a terra quattro morti e una cinquantina di feriti.

Sedici anni di buio sulle indagini furono interrotti dalla confessione di Leonardo Marino, militante di LC, che portò all’arresto, nel luglio del 1988, dei suoi ex compagni Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi, gli ultimi due con l’accusa di essere gli esecutori dell’omicidio, il primo come mandante. Riconosciuti colpevoli con sentenza definitiva, i tre vennero condannati a 22 anni di reclusione.

Nel 2009, in occasione del Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo, c’è stata una significativa stretta di mano tra Gemma Capra, moglie di Calabresi, e Licia Rognini, vedova Pinelli. Pur professatosi da sempre innocente e rifiutandosi di inoltrare domanda di grazia, Sofri ha dichiarato, nel corso di un’intervista, di sentirsi corresponsabile morale dell’omicidio.

#fancityaccaddeoggi

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