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18 agosto 1969, Jimi Hendrix chiude il festival di Woodstock.

American musician Jimi Hendrix (1942 - 1970) performs with his band, Gypsy Sun And Rainbows, onstage at the Woodstock Music and Arts Fair in Bethel, New York, August 18, 1969. (Photo by Barry Z Levine/Getty Images)

Sono passati 45 anni. Non pochi. Eppure il mito di Woodstock resta saldamente in piedi, anzi, se è possibile, con il passare degli anni si è andato espandendo, è cresciuto a dismisura, trasformando i “tre giorni di pace e musica” in una sorta di totem inattaccabile, o meglio, facendo diventare Woodstock il festival-che-non-finisce-mai. Sì, un festival che è iniziato 45 anni fa e che, bene o male, non è mai finito, perché la sua musica continua a circolare, a farsi ascoltare, a farsi amare da generazioni sempre nuove.

Una “pick experience” generazionale. Potremmo provare a dividere l’umanità tra quelli che hanno vissuto l’esperienza di Woodstock e quelli che non l’hanno mai fatto e quindi non sono in grado di comprenderne la portata e continuano a considerarlo “soltanto” un festival rock. Vivere l’esperienza di Woodstock è ovviamente impossibile oggi, è stato possibile solo per un numero limitato anche se estremamente ampio di persone che in quei tre giorni – tra il 15 e il 18 agosto 1969 – si sono date convegno a Bethel, stato di New York. Ma ci sono degli efficacissimi palliativi. Il principale è il film, anzi i film. Per le generazioni precedenti l’esperienza di vivere Woodstock attraverso il film-documentario di Michael Wadleigh era, fatti i dovuti e necessari distinguo, un evento travolgente, in cinema dove il volume era molto alto e il fumo (non soltanto di sigarette ovviamente) molto denso, nei quali la musica, la gente, il suono, i sentimenti, venivano condivisi con altri. Vedere Woodstock al cinema negli anni Settanta era un’esperienza dalla quale si usciva trasformati, si comprendeva fino in fondo il senso di quei tre giorni iniziando a guardare il mondo con occhi diversi.

Oggi guardare il film in casa ovviamente non crea lo stesso effetto. Ma ci si può provare mettendo alla prova la resistenza di amici e parenti, mettendo in fila il film originale (nel “director’s cut” che è ovviamente più lungo e completo), i filmati di YouTube che offrono quasi tutte le performance che non sono finite nel film e nemmeno nei cinque album, aggiungendo anche i Woodstock diaries con molte altre performance, e My generation di Barbara Kopple, che racconta tutte e tre le edizioni del festival, quella originale e le due celebrative del 1994 e del 1999. Se si sopravvive si è maggiormente in grado di comprendere di cosa si è trattato.

Il sogno (realizzato) di una società alternativa. Si è trattato della magica realizzazione di un sogno, quella di una società alternativa, la “Woodstock Nation” come ebbe a chiamarla Abbie Hoffman, nella quale le regole della società tradizionale erano state completamente abolite. Per tre giorni a Woodstock mezzo milione di persone (forse di meno, forse di più, ma è obiettivamente impossibile, quanto irrilevante, stabilirne il numero esatto) hanno vissuto senza denaro, senza polizia, senza regole, senza divieti, praticando la rivoluzione. E tutto questo ha funzionato, nonostante il caos, la sporcizia, il fango, le impossibili condizioni igienico-sanitarie, la droga distribuita in dosi incommensurabili, senza che ci fossero problemi degni di nota. Tutto, per tre giorni, è sembrato possibile, anzi è stato possibile, perché tutti volevano che fosse così, perché collettivamente centinaia di migliaia di giovani hanno desiderato che accadesse, e lo hanno reso realtà.

Sì, direte voi, ancora Woodstock, che palle! E invece, consentitecelo, se ne parla troppo poco, si tende a “normalizzare” un evento che di “normale” non aveva davvero nulla, si affibbia il nome “woodstock” a qualsiasi raduno conti più di qualche migliaio di persone, fosse anche la sagra della porchetta, si tende a far passare la vulgata che non fosse altro che un grande festival rock, con tanta bella musica, un sacco di ragazzi fatti come zucche, molto divertimento, una “vacanza” dalla vita di tutti i giorni e nulla più. E invece no, Woodstock andrebbe raccontato nelle scuole, fatto vedere ai ragazzi, bisognerebbe provare a spiegare a tutti cosa è accaduto in quei tre giorni, come è stato possibile che l’utopia, l’impossibile, diventasse incredibilmente la realtà, come è stato possibile che un sogno, quello di un mondo diverso, libero, pacifico, solidale, venisse messo in pratica. Woodstock è stato il punto più alto di un percorso iniziato all’alba degli anni Sessanta, tra la nomina di Kennedy alla presidenza degli Stati Uniti, la nascita dei Beatles e dei Beach Boys, l’arrivo di Dylan a New York, i primi movimenti studenteschi a Berkeley, l’avvento del beat, la presa di coscienza da parte di una intera generazione di giovani che aveva iniziato a immaginare una vita diversa e che quella vita diversa aveva, coscientemente, praticato, anno dopo anno, giorno dopo giorno, per tutto il decennio, 1968 compreso. Woodstock è stato il punto geografico in cui tutta questa energia, tutti i sogni, i progetti, l’immaginazione, si sono riuniti, senza violenza o rivolta, solo per affermare, positivamente, la propria volontà.

Ma la rivoluzione, dopo Woodstock, non c’è stata. Il festival è stato anche il capitolo conclusivo della straordinaria trasformazione degli anni Sessanta, il grande fuoco d’artificio finale, dopo il quale i sogni si sono spezzati, ed è rimasta solo la droga, quella pesante, la violenza, il dolore, la morte, l’isolamento. Ma quei tre giorni ci sono stati davvero, e la musica che li ha accompagnati resta ancora con noi, con tutta la sua forza, la sua libertà, i piccoli amplificatori, l’assenza di ogni spettacolarizzazione, musica che sul palco era perfettamente sincornizzata con i desideri e i sogni dei ragazzi sul prato. Gruppi e pubblico erano una cosa sola, e dopo Woodstock solo raramente è stato ancora così.

Chi non ha vissuto l’esperienza, chi non ha visto il film, letto i libri, ascoltato la musica di tre giorni a Woodstock, vive una vita più triste, non c’è dubbio. Una vita nella quale i sogni non si realizzano mai, nella quale immaginare una vita diversa è impossibile, una vita nella quale la libertà
è sempre limitata da qualcosa, così come l’immaginazione. E poi, permetteteci di dirlo, chi non ha visto Woodstock non può amare davvero il rock, non lo conosce, non lo capisce, non sa cos’è. E si perde uno dei buoni motivi per vivere su questo pianeta.
(repubblica.it)

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