«Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà».
Così il padrino don Mariano si rivolge al capitano Bellodi nel passaggio chiave de Il giorno della civetta, romanzo d’esordio dello scrittore e giornalista Leonardo Sciascia, pubblicato in anteprima sulla Rivista “Mondo Nuovo”. In esso viene ripreso in forma romanzata un fatto vero: l’omicidio di un sindacalista comunista avvenuto a Sciacca nel 1947.
Per la prima volta la mafia entra nella letteratura ma come fenomeno da denunciare in tutta la sua spietatezza e per il grado di complicità del potere politico e di omertà della gente, di cui beneficia nel controllare interi territori.
È un punto di svolta perché fino a quel momento “cosa nostra” veniva rappresentata con toni quasi epici, che finivano per mitizzare, piuttosto che condannare, i suoi padrini e affiliati. Parallelamente, la politica tendeva a negare l’esistenza del fenomeno o quantomeno a ridimensionarlo di molto.
Sciascia proseguirà su questo filone giallo-poliziesco, pubblicando un secondo romanzo nel 1966 con il titolo A ciascuno il suo, cui ne seguiranno altri, molti dei quali tradotti in opere cinematografiche.
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