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FARE MEMORIA. «Noi, sopravvissute perché scambiate per gemelle»

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«Entrare ad Auschwitz non è mai facile. Anche se sono passati 70 anni. Quando vedo da lontano la torretta, mi succede ogni volta, comincio a stare male. Ma vengo lo stesso ogni anno. Per non dimenticare. Poi, quando la visita finisce, ricomincio a respirare. E io posso tornare alla mia vita». Andra Bucci ha 74 anni e i capelli bianchi. Come la sorella Tati, 76. Quando parlano della loro vita nei campi di sterminio, dove vissero dal marzo 1944 al gennaio 1945, le loro storie si intrecciano e si completano. Quella notte di fine marzo 1944, erano da poco passate le nove. Tati aveva i postumi della varicella. Lei, Andra, e il cugino Sergio de Simone, 7 anni – fuggito da Napoli insieme alla madre Gisella -, erano già a letto. Quando arrivarono i tedeschi, la madre Mira Perlow, sfollata in Italia dall’Ucraina, li svegliò e li vestì in fretta. In soggiorno c’era confusione. «Era pieno di gente», racconta Andra. Ma il ricordo indelebile per entrambe è quello della nonna Rosa, 61 anni, che si mise a piangere e si gettò per terra, aggrappata ai cappotti di questi uomini «altissimi». Implorò i soldati di prendere lei. Di lasciare stare i bambini. Ma fu inutile. I nazisti li portarono via tutti – donne e bambini-, a bordo di un auto «così grande che sembrava un carro armato». Iniziò un viaggio lungo quasi 1.000 chilometri. In treno, a bordo del convoglio numero 25T. Partirono da Fiume il 29 marzo. Arrivarono ad Auschwitz il 4 aprile. Con una fermata intermedia: laRisiera di San Sabba, il lager vicino a Trieste utilizzato dai nazisti per il transito, la detenzione e l’eliminazione di prigionieri politici e ebrei. Tati e Andra rimasero lì due giorni insieme alla famiglia. Poi il viaggio continuò fino ai lager diventati simbolo della Shoah. Paura? «No, non sapevamo ancora cosa volesse dire avere paura». Appena arrivate al campo, ricorda Tati, «ci fecero indossare vestiti grandi e sporchi». Poi «ci marchiarono con il numero che ancora oggi portiamo sul braccio. E che non abbiamo mai voluto cancellare». La nonna venne sistemata in un’altra fila, «insieme ai prigionieri destinati subito al gas». Nel lager le due bimbe videro la morte. I cadaveri bianchi e nudi che spuntavano dalla porta delle baracche dove venivano ammassati. La madre di giorno lavorava. «Ma ogni tanto riusciva a venire a trovarci. Quando ci vedevamo ci ripeteva sempre i nostri nomi. E questo ci permise di non diventare solo numeri, come volevano loro, e fu importante anche per ritrovarci dopo la liberazione». Con la madre ebrea e il papà cattolico, le bambine erano figlie di una «coppia mista». Secondo Marcello Pezzetti, direttore della Fondazione Museo della Shoah di Roma, potrebbe essere questo il motivo per cui Andra e Tati non furono uccise appena arrivate al lager, come accadeva agli altri bimbi. «Poi probabilmente – ipotizza Pezzetti – entrò in gioco anche un secondo fattore, decisivo per la loro salvezza: la loro somiglianza, così marcata che le due furono scambiate per gemelle. Furono tenute da parte insieme ad altri bambini-cavia, perché proprio sui gemelli il dottor Mengele conduceva i suoi feroci esperimenti». La strada della salvezza passò infine anche dai gesti della «kapò che si occupava del nostro blocco, che con noi era molto gentile», ricorda Andra. «Un giorno ci prese da parte e, senza spiegare perché, ci disse: “Domani vi chiederanno se volete rivedere la mamma, rispondete di no”. Dicemmo a nostro cugino Sergio di fare la stessa cosa. Ma lui non ci diede retta. Quando effettivamente ci fecero quella domanda, noi ubbidimmo. Lui invece fu portato ad Amburgo. Anche lì venivano fatti esperimenti sui bambini. Poco prima dell’arrivo degli alleati, i nazisti li drogarono, li impiccarono e bruciarono i loro corpi. Non lo vedemmo mai più». Il 27 gennaio 1945, con la liberazione di Auschwitz, Andra e Tati furono portate a Praga. Un anno dopo, nell’aprile del ’46, vennero trasferite in Inghilterra. La madre e la zia si salvarono e, alla fine, si ritrovarono. «La mamma da allora non ha mai voluto parlare di questa storia. Zia Gisella invece ha continuato a cercare Sergio. Solo nel 1983, un giornalista tedesco scoprì la fine che avevano fatto quei bambini. La zia però, fino alla sua morte, ha continuato a sperare. Sergio tornerà, diceva». Rancore? Voglia di vendetta? «Sono sentimenti che non ci appartengono», spiega Andra. La vita è continuata. Il matrimonio. I figli. I nipoti. «Abbiamo avuto il coraggio di tornare ad Auschwitz solo nel 2005. E poi ci siamo venute sempre, anche più volte all’anno. ». E promettono: «Finché le forze ce lo permetteranno, continueremo a tornare». (fonte corriere della sera)

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