venerdì, Aprile 26, 2024
Google search engine
HomeCulturaPiccola storia di Jaci - La controversia Liparitana e l'Interdetto 1711 -...

Piccola storia di Jaci – La controversia Liparitana e l’Interdetto 1711 – 1719.

Dipinto del 700 di Marina corta Lipari Archivio storico eoliano

l’Interdetto è una sanzione ecclesiastica prevista dal diritto canonico che consiste nella sospensione della somministrazione dei sacramenti, la pena può riguardare una singola chiesa come un territorio. Nel 1711 una disputa tra il vescovo e le autorità amministrative di Lipari per questioni procedurali porterà all’applicazione di questa sanzione a diverse diocesi del Regno di Sicilia e la Santa Sede approfittava dell’occasione per ridimensionare i privilegi del Tribunale della Regia Monarchia.

Riportiamo la ricostruzione della disputa :

Era la mattina del 22 gennaio 1711 quando nella piazzetta di Marina Corta di Lipari, che allora si chiamava di San Giovanni ed oggi Ugo di Santonofrio, due vigili annonari che allora erano detti “catapani” o “accatapani”, entrano nella bottega, che allora si chiamava “apoteca”, di Nicolò Buzzanca per verificare la merce in vendita e riscuotere il cosiddetto “diritto di mostra” cioè una piccola parte di ciascuna di esse al fine di testarne la qualità e fissarne il prezzo e garantire che la qualità non sarebbe stata adulterata nel corso della giornata. Poi, a fine giornata, questo “diritto di mostra” veniva diviso fra i catapani visto che il loro era un servizio volontario che si aggiungeva gratuitamente alla loro professione. Cose di tutti i giorni. Ma quella mattina  fra le merci in vendita c’è anche una partita di ceci che veniva dalla mensa vescovile e che per prassi consolidata – così sosterrà la curia ma la cosa (come altre di questa vicenda) non sarà così pacifica – era esente da ogni tassa o balzello o diritto di mostra che fosse. I due catapani che fanno l’ispezione nella bottega di Buzzanca sono Battista Tesoriero e Jacopo Cristò , due artigiani, fabbro ferraio il primo e argentiere il secondo. Sapevano i due che si trattava di merce della mensa vescovile? E’ questo uno dei nodi della questione su cui si creano due schieramenti con posizioni contrapposte. Come emergono due verità contrapposte anche a proposito della restituzione da parte dei catapani al commerciante se non dei ceci almeno del loro prezzo una volta conosciuta la loro provenienza. Come si formano ancora schieramenti contrapposti a proposito dell’esistenza o meno sui beni della mensa vescovile di un diritto di esenzione. La tesi dei catapani come dei giurati – gli amministratori comunali di allora – e poi del Tribunale della Regia Monarchia di Palermo sarà a favore dei catapani: non sapevano, restituirono l’equivalente, non era mai esistito un diritto di esenzione. Del tutto opposto il giudizio del Tribunale della curia vescovile che aveva competenza su tutta una serie di questioni che in qualche modo toccassero la religione, la morale e le strutture ecclesiastiche, persone o beni che fossero.  E sulla base di sette testimonianze scritte, i cui verbali si trovano ancora nell’Archivio della curia vescovile di Lipari, viene emesso prima un “monitorio” cioè una sorta di “avviso di garanzia” come si chiamerebbe oggi, ingiungendo ai due malcapitati di discolparsi e dopo alcuni giorni – giudicata inconsistente la risposta – la sanzione e cioè la scomunica  che allora non era solo una pena di carattere religioso ma aveva rilevanza anche sociale perché di fatto tagliava fuori dalle pubbliche relazioni, in una società ancora non secolarizzata, chi ne fosse colpito. (ARCHIVIO STORICO EOLIANO).

Ritratto del Vescovo Andrea Riggio – Santuario Maria SS. di Valverde

I Giurati restituirono il “coppo di ceci” ma si rifiutarono di presentare le scuse, il vescovo lanciava la scomunica ai due Acatapani con le dovute conseguenze che ne derivavano. I Giurati ricorrevano al Tribunale della Regia Monarchia , che per antico privilegio amministrava gli affari ecclesiastici in Sicilia, che sospendeva in via cautelare la sanzione dopodichè annullava le scomuniche. “Informata la Santa Sede, Papa Clemente XI, presa visione dell’ostacolo che ciò comportava al secolare andamento ecclesiastico, cercò di abolire tale privilegio ottenendo una ferma opposizione del governo., così da creare un conflitto che causò l’esilio del vescovo di Catania, Mons. Andrea Riggio, da parte del vicerè, Mons. Riggio costretto ad abbandonare la Diocesi, indisse l’interdetto, il 21 aprile 1713 , impedendo così che venissero amministrati i Sacramenti.” L’esempio del vescovo di Catania fu seguito dai vescovi di Girgenti e Lipari anch’essi esiliati.

La vicenda dell’Interdetto interessò pure la Citta di Aci Reale. Le chiesa erano serrate: non si amministravano i battesimi, le comunioni, non si dava il “Viatico, non si celebravano i matrimoni e i funerali religiosi. In questo scenario molto doloroso, per la mentalità religiosa del periodo, si inseriva la vicenda del Sacerdote Martino De Maria, figlio di Marc’antonio Di Maria barone di San Martino. La storia ci viene tramandata dal Sac. Giuseppe Di Mauro Riggio:

Mausoleo di Martino Di Maria dei baroni di San Martino – Chiesa San Martino Acireale

Nel tempo che l’interdetto afflisse le diocesi di Mazzara, Girgenti e Catania dell’anno 1711 al 1718, il sac. Di Maria, mosso da uno zelo poco considerato, aprì la sua chiesa di San Martino, amministrò i sacramenti, ed univa ai divini uffici la predicazione della s. Parola, di che fu compreso nel Monito IX, emanato dalla S.M. di Clemente XI, de’ 9 dicembre 1715. Tale condotta parve oscurare la santità dei suoi costumi, mostrando poco rispetto degli ordini dalla Santa Sede, la quale ratificava la pena da monsignor Reggio a questa diocesi infflitta. In sac. D. Martino sebbene potesse allegare appo la Santa Sede quegli motivi, che non solo giustificarono l’arcivescovo di Messina Migliaccio, infrattore egli ancora dell’interdetto, ma gli meritarono applauso del Pontefice, pure ci colse quest’occasione percesercitare l’umiltà , sua prediletta virtù. Si dichiaro reo e colpito di anatema, onde a piede scalzo, coronato di spine, una fune al collo, e catena di ferro percorse la disastrata strada di Aci a Catania in si umile atteggiamento , e si presentò al Delegato apostolico, chiedendo pubblicamente l’assoluzione della censura. Quest’atto si edificante inteneri il popolo di Aci e di Catania, strappò le lacrime al Delegato apostolico, il quale dopo di averllo assoluto, lo ricolmo di mille distinzioni onorificentissime.

Il 7 di aprile del 1719 si giungeva ad un primo accomodamento della vicenda “Liparitana”. La disputa si concludeva soltanto nel 1728 con l’intervento dell’Imperatore d’Austria Carlo VI , nuovo Re di Sicilia, con la firma della cosiddetta “concordia benedettina” che riaffermava i diritti , salvo qualche limitazione, del Tribunale della Regia Monarchia. Il Vescovo Riggio cessava di vivere nel 1717 e il nuovo vescovo di Catania si riconciliava con la citta nel 1721.

bibliografia:

Acireale e i PP. Cappuccini di Aurelio Grasso e Katia Trovato

Le relazioni “ad Limina” della Diocesi di Catania” di mons. Adolfo Longhitano

Memorie storiche sopra la vita del Servo di Dio Mariano Patanè di Don Giuseppe Di Mauro Riggio

RELATED ARTICLES
- Advertisment -
Google search engine

Most Popular

Recent Comments