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STORIE DI VINILI – Neil Young – “Harvest”

Nel 1972 la casa discografica Reprise pubblica “Harvest”, quarto album del cantautore e chitarrista canadese Neil Young e capolavoro indiscusso della musica country-rock. L’album che si avvale della preziosa collaborazione di James Taylor e Linda Ronstadt, si posiziona al 78º posto della lista dei 500 migliori album di tutti i tempi secondo la rivista specializzata Rolling Stone.

Neil Young, nonostante da bambino gli venne diagnosticato il diabete e a sei anni venne colpito dalla poliomielite che gli indebolì il lato sinistro, causandogli un’andatura leggermente zoppicante, può vantare una brillante carriera tuttora in atto e la produzione di ben quarantasei album da solista, senza considerare quelli cui partecipò come componente della mitica band dei Crosby, Still, Nash & Young.
Alfiere ecologista, anti razzista e anti militarista Young è stato un precursore del grunge, inventando un particolare stile di chitarra distorta che lo caratterizzò senza comunque mai allontanarlo dal suo amato country. L’album precede quella che viene definita la ‘trilogia oscura’, ossia il periodo di crisi profonda di Neil Young dovuto ai problemi di salute e alla morte di numerosi amici-colleghi. “Harvest” scala le vette della classifica scalzando un inossidabile “Thick as a Brick” dei Jethro Tull.

Il disco suona piacevolmente in un’atmosfera di leggera malinconia e intimità, i testi sono introspettivi e autobiografici, Il ‘raccolto’ (traduzione di Harvest) contiene meraviglie come la straziante “Needle and the damage done”, una delle più potenti canzoni contro la droga che descrive lo sprofondamento negli abissi di chi usa stupefacenti, nella quale il cantautore si rivolge a tutti quei musicisti che frequentava all’epoca, primo fra tutti l’amico Danny Whitten, che di lì a poco sarebbe morto per overdose. “I’ve seen the needle and the damage done…but every junkie’s like a settin sun” (ho visto l’ago e il danno fatto…ma ogni tossico è come un sole che tramonta).

“Needle and the damage done” è stata riproposta da tanti artisti, da Pearl Jam a Red Hot Chili Peppers, da White Stripes a Dave Mattews, da Pete Doherty ai Simple Minds.
Altra traccia dell’album è “Alabama”, una dura condanna alla schiavitù dei neri in America del sud. Neil Young con questo brano riprende un concetto già elaborato ai tempi di “Southern Man” nel 1969 diventando il porta bandiera anti-razzista di un’intera generazione.
Il brano, come già vi ho raccontato in un precedente articolo, scatenò la reazione della band country rock dei Lynyard Skynyrd, che rispose con la provocatoria “Sweet Home Alabama”, destinata a diventare una delle più famose canzoni on the road di tutti i tempi (“ho sentito il vecchio Neil umiliarti Alabama, beh spero che Neil si ricordi che un uomo del sud comunque non ha bisogno di lui”). Ma Neil Young non se la prese, anzi ogni occasione diventò buona per dichiarare la sua stima per la band arrivando persino a riproporne una personale versione acustica durante un concerto.
“A man needs a Maid” è un affettuoso omaggio all’attrice e compagna Carrie Snodgress, mentre altre indimenticabili tracce autobiografiche sono “Out on the weekend” (“see the lonely boy out on the weekend”) e la romantica “Harvest” che dà il titolo all’album.

“Hearth of Gold”, la più famosa fra tutte, è una delicata ballad caratterizzata da un prezioso e indimenticabile riff di armonica: I”’ve been to Hollywood, I’ve been to Redwood, I crossed the ocean for a heart of gold” (sono stato a Hollywood, sono stato a Redwood, ho attraversato l’oceano per un cuore d’oro).

Per molti critici e addetti ai lavori, resta un mistero come abbia fatto questo menestrello, da “Harvest” in poi, a cavalcare decenni su decenni con quella voce flebile cantilenante, a volte un po’ stonata , ma potrebbe essere stata proprio quella particolarità a distinguerlo dagli altri così come successo ad artisti quali Lou Reed e Bob Dylan che hanno potuto contare sulla qualità dei testi e sull’emotività, trascurando la tecnica vocale.

Luigi Pennisi

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