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Led Zeppelin – “IV”

Led Zeppelin 4

All’inizio del 1971 i Led Zeppelin si trovarono di fronte a un bivio. I sapori folk-lisergici che ammantavano buona parte del sorprendente terzo album, con il quale Jimmy Page aveva cercato di togliere dal gruppo l’etichetta di alfieri del nascente heavy rock (prestigiosa, ma che il leggendario chitarrista ha sempre considerato riduttiva), aveva fatto registrare un calo di popolarità e vendite. Il grande pubblico, soprattutto americano, si era assuefatto agli stentorei anthems di “II” e non aveva apprezzato l’ammorbidimento di atmosfere del Dirigibile. Il quartetto uscì dallo stallo realizzando la propria opera più completa, eclettico amalgama di stili e influenze, in grado di mettere tutti d’accordo, e di spalancare le porte dell’eternità artistica ai suoi autori. “IV” è il perfetto album di intrattenimento rock, ideale per una generazione che iniziava a lasciarsi alle spalle l’utopia libertaria dei Sixties, ed eccellente antidoto alla crisi sociale dei Seventies con il suo immaginario di fuga e la sua musica dinamitarda ed esoterica.
Tanto per dirne una: “IV” esce nel novembre 1971, quando il conflitto in Indocina sta entrando nella sua fase più cruenta, col suo sempre crescente strascico di laceranti cancri all’interno del mondo occidentale, tanto che persino i Black Sabbath pubblicano la corrosiva “War Pigs” in merito. Ma gli unici echi di conflitto tra questi solchi risalgono ad arcani e mitologici scontri perduti nella notte dei tempi.
Inizia nel modo più classico l’album più classico dei Led Zep: le grida luciferine di Robert Plant squarciano il robusto impianto hard-blues di “Black Dog”, griffato dal poderoso drumming di John Bonham e vivacizzato dai taglienti e fiammeggianti singulti di un Page in stato di grazia. Gli orfani del “bombardiere marrone” si consolano inoltre col tumultuoso incedere di “Rock and Roll” ( un intero genere compresso in tre minuti e quaranta secondi esplosivi), quello più cadenzato di “Misty Mountain Hop” (con testo a metà tra Tolkien e una parodia hippy, spinto dal piano elettrico di John Paul Jones) e con la caleidoscopica “Four Sticks” ( in cui è Bonham a farla da padrone, suonando con le quattro bacchette cui allude il titolo). Non sparisce nemmeno la matrice originaria del Led Zep, il blues: nella conclusiva “When the Levee Breaks” un tema di Memphis Minnie funge da base per divagazioni di spessore, vigore e profondità eccezionali.
Il folk visionario di “III” spunta fuori in due ballate da antologia. “The Battle of evermore” è una battaglia cosmica tra l’ugola plantiana e la cristallina e purissima voce di Sandy Denny in uno scenario da crepuscolo degli dei celtici, col mandolino di Page intento a disegnare siderali e freddi ghirigori nordici mentre “Going To California” è inebriata da soffici tocchi westcoastiani.
Tutto questo tesoro ovviamente spesso è relegato in secondo piano da “Stairway to heaven”, l’acme compositivo del Dirigibile, il perfetto connubio tra l’anima acustica e quella elettrica della band. Se non è il pezzo più famoso della storia del rock, è certamente quello più ascoltato e sviscerato, anche per i celebri strascichi satanici sui presunti messaggi subliminali di Page, noto seguace di Aleister Crowley. Impossibile carpire i segreti di questo incantesimo alchemico, che parte con il celebre arpeggio accompagnato dal flauto, per imboccare un brivido ascensionale che culmina nel divino assolo di Page, e nell’esplosione collettiva finale, scandita dal fenomenale “treno” di Bonham. “Stairway to heaven” è l’evocazione di spiriti ancestrali, magici e ipnotici: forze sofisticate e pericolose che hanno incantato milioni di persone con la ritualità mantrica del quartetto. Una reliquia che sintetizza come pochi altri la propria epoca: il disincanto e la crisi degli anni 70, permettendo al rock di trovare un ‘oasi eterna di bellezza, mistero e furore.
Junio C. Murgia (lastoriadellamusica.it)

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